Montecasoli

(lato SE del castello. Le antiche tombe adibite a case e stalle)
Sito a 1300 m a NO di Bomarzo è bagnato dal fosso omonimo al versante S e dal torrente Vezza a N.
“Narra Tito Livio, nelle sue Storie, che, nel 312 a. C. in lotta contro gli Etruschi, Quinto Fabio Rulliano, salito sulla vetta del Cimino, dopo aver attraversato l’impenetrabile selva che lo ricopriva, si fermò a contemplare da lassù i fertili campi della zona sottostante”
Da questa premessa possiamo formulare l’ipotesi più concreta per introdurre con precisione la descrizione della zona di Monte Casoli, cioè uno dei famosi pagi (villaggi) inseriti sulla direttrice che dall’entroterra viterbese conduceva alla via di comunicazione principale che era il Tevere, inserendosi come una ferita in una vegetazione boscosa forte e impenetrabile; ipotizziamo una direttrice con inizio da Ferento e proseguente per Acquarossa, Vitorchiano, Selve di Malano,
Serraglio, Monte Casoli, Pianmiano, Tevere
Le origini etrusche sono facilmente deducibili dai numerosi segni di lavorazione della pietra tufacea; le similitudini con Norchia, Castel d’Asso sia nelle tagliate che nella tecnica sono notevoli. Le numerose cavità presenti sul versnte SE probabilmente ebbero origine come sepolture, e successivamente inglobate in un castello medievale fortificato ed adattate ad abitazioni o a ricoveri per il bestiame. Maggior lustro a tale epoca è dato dalla serie di cavità tufacee rimaste fuori dalle mura castellane, le cui pareti sono suddivise in piccole celle, cosiddetti colombai, alcune a forma squadrata, altre a spiovente di casetta
(particolari di alcuni colombai)

L’incombente pericolo dell’avanzata romana è visibile soprattutto nei primi strati di fortificazione del nucleo di M.C.,probabilmente etruschi, dove le pietre tufacee sono di taglio diverso e posizionate a secco sulla roccia.
L’epoca romana è maggiormente testimoniata nelle adiacenze, nel bosco del Serraglio e nelle selve di Malano, che con Monte Casoli, costituiscono un unico itinere storico e culturale. Questa contiguità è evidente sia nella fattura dei vari monumenti funerari presenti, sia nelle epigrafi dedicatorie apposte su di essi. Una in particolare ricorda l’appartenenza alla tribù Arniense, ed è incisa sia su un masso sepolcrale del serraglio, sia su di uno alle selve di Malano.

Probabilmente è sempre in epoca romana che il territorio viene organizzato con una rete stradale più efficiente. Da recenti ricognizioni è stata individuata l’antica strada che da Bomarzo saliva al colle della Castelluzza per scendere nuovamente al fosso di Monte Casoli e risalire all’abitato rupestre. E’ lungo questa strada che L. Vittori, nelle sue memorie, descrive l’introvabile epigrafe romana
RVILI . P . IIII .
M . RVFIN . P . II .
“quale iscrizione mostra la misura dello spazio che nella via a Ruilio apparteneva cioè quattro piedi, ed a Marco Rufino due piedi, di maniera che la larghezza della strada esser doveva di sei piedi romani. Nella parte opposta e poco lungi dalla prima rimirasi altra iscrizione:
L . SIL . RVFINI
M . TER
Indica anche essa altri due proprietari della detta strada che forse l’avevano continuata, od aperta dal lato opposto nei loro fondi, ovvero che tanto Lucio Silvio Rufino, quanto Marco Terenzio altro non fossero che secondi possessori succeduti ai primi”.
Recentemente è stata rinvenuta una porzione di canalizzazione dell’acqua ricavata dalla sequenza di lastre di pietra recanti una semiconduttura centrale scavata, la cui funzione era di portare acqua dalla sommità della Castelluzza al Casale Cardoni, seguendo probabilmente il decorso della strada che proseguiva poi per M.C.
Sempre riferibile al periodo romano è l’ipotesi di G. Marrocco dell’origine del nome Vezza, da accreditare alla famiglia VETIO.
Del seguente periodo barbarico abbiamo poche notizie ed altrettante testimonianze. D’Arcangeli cita il ritrovamento di tombe a logètte. Riferisce inoltre che il precedente appellativo del fosso Serraglio, è Guardo, possibile derivato da Gualdus.
Il trascorrere del tempo gradualmente trasforma Monte Casoli in un tipico fortilizio medievale, con abbondante riutilizzo di materiali edili preesistenti.
Nei documenti compare, sembra, per la prima volta il 3 marzo 1207, in quanto alcuni suoi cittadini (un tale Bonocomite, i suoi fratelli e altre persone in Montecasule habitantibus, nominate subito dopo) hanno occupato illecitamente un cospicuo nucleo di terre, spettanti alla chiesa di S.
Terenziano per conto del monastero di S. Silvestro de Capite. La causa, risoltasi il 14 maggio dello stesso anno con il riconoscimento dei diritti e delle ragioni dei monaci, permette di sapere che parte del territorio del Castello si estendeva soprattutto sulla sponda destra del Vezza, verso Bomarzo, ed
il foxatum de Montecasule (fosso di Montecasoli – molto probabilmente il corso d’acqua ha ricevuto per appellativo il nome
del castello non solo perché transitava alla base del suo altopiano, ma anche in quanto gli apparteneva per intero, da sponda a sponda, e non per metà, come di solito avveniva per i fossi di confine.) costituiva il confine tra questo e i beni spettanti a S. Silvestro.
Attaccato e saccheggiato nel 1280 dagli abitanti di Vitorchiano, viene venduto tra il 2 e il 4 marzo
1293 dai suoi proprietari, e cioè Gianni ed Angelo di Messer Stefano Sarcina da una parte, Pandolfo Capocci e Raniero Gatti dall’altra, alla città di Viterbo, in cambio rispettivamente di 6000 fiorini d’oro e di 6000 libbre di denari paparini.

Due giorni dopo i loro 43 vassalli giurano fedeltà al Comune. Il castello, che nel frattempo ha acquisito diritti giurisdizionali sul territorio di S. Terenziano a N, ne diventa anche padrone nel 1298, ricevendone l’investitura da papa Bonifacio VIII per il tramite dei nobiles viri Johannes et Angelutius fratres de dominis Castri Montis Casuli cives Romani. Nel 1319 gli abitanti vengono vanamente sollecitati dai Romani, rappresentati da Guglielmo Sciarra, al pagamento di una tassa di 3 fiorini ad custodiam stratarum et grassie militum.Il Patrimonio di S. Pietro resta proprietario del luogo fino al 1359, anno in cui il castello viene ceduto agli Orsini e dato come pegno dotale a Vannozza Orsini. Rimase poi alla stessa famiglia fino al sec. XVI (nel 1567 Vicino Orsini paga alla Camera Apostolica un censo per la “tenuta di M. Casoli”). Al 1416 risale però la notizia della sua avvenuta distruzione, per cause non specificate.
Come in molti casi, la testimonianza che sopravvive ai secoli è quella cristiana, con la Chiesa di S. Maria di Montecasoli. L’edificio è composto da due strutture unite; la prima più piccola, presenta una composizione muraria tipicamente medievale, con abbondante riutilizzo di materiali edili e laterizi, ed è contigua ad una tomba rupestre recante tracce di un affresco postumo cristiano, chiamato dai locali “Madonna che fila” (deturpato da un tentativo di asporto clandestino negli anni 70); la seconda, più ampia, mostra segni costruttivi ben più recenti.
Altra interessante scoperta è stata fatta alcuni anni fa sulla base di suggerimenti orali di un pastore del posto, il quale raccontava di una chiesa sepolta da una frana nella piana di Monte Casoli, sottostante alla località Trocchi. Da un saggio superficiale venne individuata una trave lignea di notevole sezione, per cui si ipotizzò quale tetto della perduta chiesa di S. Salvatore.
Del castello rimangono visibili alcuni tratti di mura, qualche soffitto (negli anni 50 purtroppo diversi locali vennero fatti brillare con mine a scopo non precisato) la porta orientale e l’antico stradello scavato che lo collegava al fosso omonimo a quindi alla vecchia strada romana.
Bibliografia
1) V. D’ARCANGELI “Monumenti archeologici ed artistici del territorio di Soriano nel Cimino e delle zone limitrofe “ 1967 – 1981
2) L. GASPERINI “Iscrizioni latine rupestri nel Lazio” vol. I Roma 1989
3) L. VITTORI “Memorie archeologico-storiche di Bomarzo” 1846
4) S. DEL LUNGO “ La toponomastica archeologica della provincia di Viterbo” 1999
5) M.P. BAGLIONE “Il territorio di Bomarzo” 1977
6) G. LAMORATTA “GAP- guida archeologica di Bomarzo” 1989
Ottobre 2005 Giovanni Lamoratta